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28 Years Later

28 Anni Dopo

Danny Boyle

Horror • 2025 • 1h 55m

28 Years Later

Ventotto anni non sono un semplice scarto cronologico: sono il tempo accumulato dell’attesa, della mutazione, della ricaduta. 28 Years Later non si limita a proseguire la genealogia virale inaugurata nel 2002, ma inaugura un nuovo ciclo di visioni contaminate, in cui l’epidemia non è più il centro del racconto ma il suo fondale, una condizione esistenziale normalizzata.

Recensito da Beatrice 18. June 2025
Sono stufo di questa farsa del “com’è belle l’umanità”. Siamo un virus con le scarpe.
(Bill Hicks)



L’opera si apre con una parodia cromatica e inquietante del celebre programma per bambini, per poi trasferirci su un’isola, luogo liminale, dove una tribù post-apocalittica sopravvive in dissociazione dal mondo degli infetti. La narrazione si struttura attorno a una famiglia composta dai genitori Isla e Jamie e dal figlio Spike. Ma il vero protagonista è il disfacimento dei legami, il lento collasso delle strutture che definivano “famiglia”, “autorità”, “futuro”.
Spike rappresenta un vettore di scarto: cresce dentro un ordine patriarcale che vorrebbe imporgli un destino, ma si sottrae, cercando una via altra. In questo, Boyle riconosce il riflesso del trauma Brexit: non tanto un evento politico, quanto un ritorno regressivo, una chiusura nel ventre caldo dell’identità perduta. Il viaggio di Spike è allora un atto di diserzione, un rigetto dell’eredità, un movimento verso un’idea di progresso che è anche solitudine.
 La tensione educativa si rovescia nella sua forma più estrema: un padre che porta il figlio sulla terraferma non per salvarlo, ma per addestrarlo all’omicidio, con arco e freccia. Il rito di passaggio si sporca di sangue e disillusione.
Ventotto anni non sono un semplice scarto cronologico: sono il tempo accumulato dell’attesa, della mutazione, della ricaduta. 28 Years Later non si limita a proseguire la genealogia virale inaugurata nel 2002, ma inaugura un nuovo ciclo di visioni contaminate, in cui l’epidemia non è più il centro del racconto ma il suo fondale, una condizione esistenziale normalizzata.
Nel viaggio emergono figure composite e disturbanti: infetti obesi e rallentati, detti “i bassi e lenti”, che si nutrono dei frutti della terra come animali in simbiosi col paesaggio; ma anche “gli alfa”, snelli, affilati, predatori feroci – una sorta di bodyshaming horror che destruttura l’immagine del nemico. La malattia non è più una punizione né un’eccezione, ma una grammatica delle differenze che mutano.
Danny Boyle e Alex Garland tornano su quella soglia solo apparentemente abbandonata. La loro ricomparsa non è nostalgica e non solo commerciale: è un ritorno meditato, innescato da una necessità simbolica che si presenta con due immagini opposte e insieme contigue: la Brexit e i Teletubbies. L’implosione politica e l’infantilizzazione della percezione. Frammenti di un’identità britannica in frana.
 In questo spazio sezionato, la madre di Spike è malata: una figura fragile e remota, oggetto di un desiderio di salvezza che si scontra con il tradimento del padre e le sue menzogne. La famiglia post-apocalittica diventa così teatro mitico, tragedia interiore, memento mori.
Boyle riflette anche sulle mutazioni interne al linguaggio filmico. L’uso di dispositivi mobili, camere leggere, droni: non per feticismo tecnologico, ma per esigenza di leggerezza e prossimità. Le riprese con iPhone non sono un espediente ma un gesto di frizione: destabilizzare le maestranze, rompere la grammatica della produzione.
 È con questa grammatica che si catturano immagini crudeli e folgoranti: un prometeo incatenato a testa in giù, le interiora strappate da uccelli, un cimitero monumentale composto da tronchi d’ossa e mausolei cranici, un parto virale tuttavia incontaminato– “poteri della placenta”, dice il medico.
La pandemia, che nel primo film era solo prefigurata, ora si è inscritta nella coscienza collettiva. Boyle non vuole più riprodurre una Londra vuota; oggi, il vuoto ha cambiato consistenza. Il virus non è solo malattia: è impulso, è desiderio, è accelerazione. Esso dischiude una forma di vitalità estrema, al limite del suicidio.
 Lo iodio cosparso sul corpo, il narcotico come unica arma contro gli alfa: reliquie di un'umanità che resiste più con la pelle che con la ragione.
La trilogia, sin dall’inizio, lavora su un virus che scatena furia. Un dispositivo narrativo che ora riecheggia le derive psicotiche di un mondo dominato dalla tecnologia. Eppure, paradossalmente, è proprio con quella stessa tecnologia che Boyle costruisce il film. Una riflessione sottile: lo strumento che ci disumanizza può anche essere usato per generare immagini che interrogano, che incrinano, che resistono.
 Gli zombi, in questo mondo, sono solo corpi svuotati: completamente  passivi alla malattia, mentre gli altri, gli incontaminati sono attivi, violenti, consapevoli e compiaciuti.
Interessante e tutt’altro che casuale è la scelta di costruire la trilogia attorno al virus della rabbia: una patologia che non distrugge il corpo, ma ne esaspera l’aggressività, trasformando l’uomo in un’arma cieca, in un vettore di violenza. Non è un contagio della morte, ma dell’istinto, della perdita di controllo, della dissoluzione del pensiero critico. Boyle e Garland sembrano suggerire che ciò che davvero minaccia il mondo non è un agente esterno, ma un impulso interno – una collera sedimentata, sociale, politica, storica. È una rabbia endemica, che si propaga come linguaggio, come ideologia. In questo senso, il virus diventa una metafora della polarizzazione, del tribalismo, dell’impossibilità di mediazione nel discorso pubblico. È la rabbia che sopravvive a tutto, anche all’apocalisse.
Il confine tra coscienza e impulso si assottiglia. Il gioco si fa divertente – e mortale – quando Spike viene salvato da un gruppo di ariani new age, frikkettoni in stile Funny Games e Arancia Meccanica che uccidono gli alfa con pirotecnica precisione. L’orrore non è più solo minaccia: è pedagogico, è maieutico, rivelativo.
Nel finale, quando gli viene chiesto quali siano i veri “mostri” del nostro tempo, Boyle non indica creature né ideologie. Parla invece del vuoto nei luoghi del potere, dell’assenza di figure capaci di visione. Una volta si pensava che l’intelligenza artificiale potesse offrire risposte. Ora si intuisce che essa moltiplica profitti, non coscienza.
 Così 28 Years Later non è solo un film, ma una soglia teorica: riflessione sul contagio e sul linguaggio, sul tempo e sull’identità, su ciò che resta umano nel paesaggio della rovina.
 
 


Qualsiasi organizzazione fondata sulla paura deve generare paura per sopravvivere.
(Bill Hicks)
 
 

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