A Girl with Closed Eyes

Chun Sun-Young Questo film è stato presentato a Asian Film Festival a Roma A Girl With Closed Eyes Thriller • 2024 • 1h 45m

Nel silenzio montano di Hongcheon, un delitto scuote le apparenze della giustizia e riapre le ferite della memoria. Una giovane donna, trovata accanto al corpo di uno scrittore ucciso, rivendica un’identità sepolta e una verità rimossa. A Girl with Closed Eyes, esordio di Chun Sun-young, è un thriller esistenziale che interroga la colpa, l’adolescenza come trauma fondativo e la solidarietà femminile come gesto etico e possibilità di riscatto. Un’indagine sull’identità come finzione e sulla verità come creatura indomabile.
Recensito da Beatrice 10. April 2025

La colpa è il ricordo che si rifiuta di farsi silenzio.
(Emil Cioran)


Nel silenzio montano di Hongcheon, Corea del Sud, si consuma un delitto che apre una fenditura non solo nella linearità della giustizia, ma nel fragile equilibrio tra memoria e oblio. A Girl with Closed Eyes, esordio registico di Chun Sun-young, prende corpo come un’indagine che oltrepassa il crimine per interrogare l’essere stesso: chi siamo quando siamo guardati, chi restiamo quando nessuno ci crede?
Al centro di questo labirinto narrativo c’è una giovane donna colta nell’istante sospeso della colpa: un fucile ancora caldo tra le dita, il corpo di uno scrittore celebre riverso nel sangue, e un nome — Min-ju — che si rivela maschera, non essenza. La protagonista dichiara di essere Lee In-seon, una bambina scomparsa nel passato, tornata ora per reclamare una verità che il tempo ha corrotto.
Ma la verità, in questo film, non è mai ciò che accade: è ciò che resiste alla narrazione, ciò che affiora quando la memoria si fa scarto, interstizio, rottura. In-seon chiede di parlare solo con Park Min-ju, antica compagna di scuola, ora detective e simbolo di una coscienza etica che ha pagato il prezzo del dissenso istituzionale. Il loro confronto non è solo investigativo, ma ontologico: due figure, separate dal tempo e dalla colpa, si rispecchiano e si sfuggono nel tentativo di ridefinire il reale.
L’opera si muove tra echi cinematografici dichiarati e suggestioni sotterranee: il paradigma del poliziotto cittadino che si scontra con la logica ottusa della provincia richiama inevitabilmente Memorie di un assassino, mentre la riflessione sul crimine come scrittura — e sulla scrittura come potenziale gesto criminale — avvicina il film ai territori disturbanti di Misery. Ma qui ogni citazione non è omaggio, bensì frammento di un discorso sul potere della finzione nel riscrivere la Storia e nel cancellare il dolore.
Tra le molte citazioni che il film dissemina come tracce di un enigma letterario, spicca quella a Il giardino segreto. Ma se nella superficie narrativa il riferimento sembra alludere all’opera di Frances Hodgson Burnett — simbolo di rigenerazione attraverso la natura e l’innocenza — è difficile non intravedere, sotto la pelle del racconto, un’eco più ambigua e perturbante: quella di Cioccolata a colazione di Pamela Moore. Come nel romanzo della giovane scrittrice americana, anche qui si avverte una tensione sottile tra adolescenza e disincanto, tra amicizia e manipolazione, tra l’apparente scoperta del sé e il rischio della sua dissoluzione. Il “giardino segreto” di A Girl with Closed Eyes non è dunque un luogo di guarigione, ma una camera interna dell’inconscio dove si conservano, intatti, i semi del trauma. È un territorio mentale e affettivo in cui le relazioni femminili diventano specchi deformanti, riflessi di desideri non detti, di colpe antiche, di alleanze fondate su un’intimità ingenua. Se Moore parlava di una generazione scissa tra libertà e autodistruzione, il film di Chun sembra far risuonare quella stessa nota, ma in chiave coreana, trasponendo il disagio esistenziale in una partitura di silenzi, omissioni e scambi di sguardi.
La prima parte del film è tessuta con abilità: interrogatori claustrofobici, tensioni sottili, scenari che sembrano oscillare tra il sogno e il delirio, costruiscono un campo di forze in cui ogni possibilità appare insieme plausibile e impossibile. Ma proprio questa ambivalenza, questo gioco tra ciò che potrebbe essere e ciò che è stato, si sgretola man mano che la narrazione procede. I colpi di scena si moltiplicano, disorientando l’evoluzione e producendo una saturazione dell’attenzione, un senso crescente di disorientamento logico.
Quando il film dovrebbe rivelare il suo tratto, si biforca in una proliferazione di deviazioni e simboli che trovano una loro coerenza interna. Il mistero, anziché dissolversi, si intensifica e in questa deriva, resta qualcosa: una malinconia dello sguardo, una riflessione sull’impossibilità di nominare definitivamente il colpevole, e forse anche il desiderio inconscio di restare intrappolati nella colpa, come testimonianza antropologica.
Le interpretazioni sorreggono il film come colonne in un tempio lacerato. Kim è magnetica nel suo oscillare tra innocenza e manipolazione, incarnando un’identità instabile, scivolosa, frammentata. Choi Hee-seo, nei panni dell’investigatrice, incarna la tensione morale tra dovere e affetto, tra verità e giustizia. La loro dinamica non si risolve: rimane ferita aperta, segno di un passato che non passa.
A Girl with Closed Eyes non è un’opera compiuta, né forse vuole esserlo. È una meditazione imperfetta sull’identità come finzione reiterata, sul peso insostenibile della memoria e sull’impossibilità di distinguere il vero dal verosimile.  Un film che chiede, più che di essere seguito, di essere ascoltato come si ascolta una confessione: con dubbi, con sospetto. Il cinema sudcoreano torna a interrogare le ambiguità della verità e la dialettica tra giustizia e rappresentazione: un’opera imperfetta, ma radicalmente necessaria.
Nel sottosuolo emotivo del film, pulsa la ferita originaria della famiglia: non come nucleo accogliente, ma come dispositivo disfunzionale che genera frattura, silenzio, rimozione. I genitori, assenti o colpevoli, non appaiono tanto come figure quanto come ombre — fantasmi di una struttura che ha mancato il suo compito primario: custodire. In questo vuoto, l’adolescenza diventa evento fondativo, cesura definitiva tra ciò che era possibile e ciò che è stato perduto. È in quella zona liminale, tra infanzia e età adulta, che le protagoniste hanno subito — e talvolta interiorizzato — forme di violenza invisibile, sistemica. Eppure, in questo scenario di disgregazione, qualcosa resiste: un nucleo fragile ma tenace di solidarietà femminile. Non si tratta di alleanza spontanea, bensì di una complicità faticosamente negoziata, che si esprime più nel gesto che nella parola, più nello sguardo che nell’affermazione. È una solidarietà che non si libera senza prezzo: si fonda sul sacrificio, sull'assunzione del dolore dell’altra come proprio, sulla protezione, sull'accettazione della propria parzialità. Ma è proprio attraverso questo gesto — radicalmente etico — che il film apre uno spiraglio: una nuova dimensione, ancora informe, fatta di riscatto e riconoscenza. Non redenzione, ma riconoscimento reciproco, possibilità altra.

La verità è una creatura selvaggia: non si lascia catturare senza ferire chi la cerca.
(Friedrich Nietzsche)
 
 22° Asian Film Festival 

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