Fuggire può essere un gesto eroico. La fuga è un altro modo di combattere.
— Michel Foucault
Nel paesaggio crepuscolare di un Maghreb ferito, frammentato tra le promesse tradite della modernità e le macerie di una transizione mai compiuta, prende forma Una sconosciuta a Tunisi, opera che dissimula in forma di racconto morale ciò che è in realtà un atto d'accusa. Non contro un singolo aguzzino, ma contro una struttura sociale ed economica che metabolizza i corpi delle donne come materiali di scambio e ricatto, in un’economia sessuata del privilegio e della punizione.
Aya – nomenclatura transitoria, destinata a dissolversi – è una giovane proletaria dell’interno desertico, funzionale come forza lavoro e invisibile come soggetto politico. La sua giovinezza è già ipoteca: a quattordici anni è merce utile alla sopravvivenza familiare, a venti è manodopera flessibile e carne di negoziazione erotica in un sistema alberghiero dove il potere si misura in promesse non mantenute e stanze blindate. Il suo legame con Youssef, direttore e dominus dell’hotel, è un contratto implicito tra protezione e sfruttamento, tra desiderio e dipendenza: promessa di emancipazione in cambio di silenzio e obbedienza. Il capitale/corpo erotico come unica moneta riconosciuta nel linguaggio della mobilità sociale.
L’incidente del minivan, mezzo quotidiano della servitù migrante, è evento rivelatore e simbolico: non un accidente, ma un cortocircuito sistemico. Aya sopravvive alla catastrofe, non per destino, ma per emergere da una bara simbolica e compiere un gesto radicale: la sottrazione. Ruba denaro a chi le ha sottratto libertà – gesto di riappropriazione e disobbedienza – e abbandona la propria città per rifondarsi a Tunisi, in una metamorfosi che non è rinascita, ma riorganizzazione strategica dell’identità. Aya diventa Amira – “principessa” –, un nome che non rivela l’autenticità, ma la tensione a una dignità negata.
Tunisi appare come capitale molteplice: centro del desiderio, ma anche epicentro della corruzione strutturale. La città non è rifugio, ma specchio deformante. Lì, Amira si ritrova assediata da un nuovo ordine simbolico, governato dalla spettacolarizzazione del corpo e dalla sorveglianza delle norme patriarcali travestite da libertà notturna. L’incontro con Lobna – mediatrice tra i codici dell’accademia e della movida – introduce Amira in una nuova grammatica dell’apparenza: trucco, abito, linguaggio, fluidità sessuale. Ma ogni libertà è condizionata: chi controlla la narrazione controlla anche la trasgressione.
La notte in cui tutto si spezza è l’apoteosi di questa illusione: un tentato approccio maschile si trasforma, tramite l’intervento di Rafik – figura ambigua di “protettore”/stupratore e carnefice –, in omicidio, insabbiamento, dispositivo mediatico. La macchina dello Stato si muove non per proteggere, ma per deviare. L’identità femminile torna oggetto d’indagine, oggetto giuridico, oggetto sessuale. La donna che denuncia viene sospettata, la donna che tace viene invisibilizzata, la donna che mente viene criminalizzata. Il corpo femminile non appartiene mai a sé, sempre in bilico tra accusa e desiderio altrui.
Il film, nella sua stratificazione, svela la mappa del dominio: Rafik, “l’intoccabile”, è l’architrave di una rete patriarcale che si maschera da tutela. La polizia diventa braccio operativo di un potere informale che lega capitale economico, sessualità e forza. Amira è strappata da un’illusione a un’altra, da un’identità a un’altra, in un continuo spostamento che dissolve l’essere in funzione. L’unico atto che le resta è la scelta del nome finale: Aïcha – vivere. Ma cosa significa vivere in un sistema che esige la cancellazione del sé come condizione di sopravvivenza?
Il cinema di Mehdi M. Barsaoui cerca il riscatto non tanto nel racconto, quanto nella sua forma spezzata. L’opera è disseminata di personaggi-simbolo: l’ispettore conteso tra senso di giustizia e appartenenza all’apparato, la coinquilina-sorella mancata, la panettiera che sostituisce la madre biologica. Ogni figura è un frammento di possibilità.
Aya è un corpo in fuga, una identità in lotta: la rappresentazione della disintegrazione femminile nel cuore del capitalismo post-rivoluzionario
Ispirato ad un fatto realmente accaduto nel 2011 e dopo il bellissimo film Un figlio il regista tunisinodel Una sconosciuta a Tunisi propone la radiografia instabile di un paese che si specchia nella sua femminilità negata. Aya/Amira/Aïcha non è un personaggio: è un dispositivo di disvelamento. La sua metamorfosi non è favola, ma strategia di sopravvivenza. La sua fuga è la negazione di ogni patria. Il suo corpo – prima sfruttato, poi mercificato, infine colpevolizzato – è il luogo dove si esercita il potere post-coloniale. In fondo, ciò che il film denuncia non è solo la violenza maschile o lo stato autoritario, ma l’intero sistema economico e culturale che presuppone, per esistere, la cancellazione della giustizia e della soggettività femminile.
Ciò che chiamiamo resilienza è spesso il nome dolce della sopportazione dell’ingiustizia.”
— Laurence Lippmann