L'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù.
(François de La Rochefoucauld)
Una donna sola, Elizabeth, attraversa la soglia della scuola del figlio Armand, richiamata d’urgenza da un allarme che rifiuta la chiarezza e sceglie il non detto. L’accoglie Sunna, giovane insegnante ancora ignara della vertigine che l’attende. I superiori, persi nelle nebbie della loro stessa incompetenza, le affidano il compito di gestire l’indicibile, senza strumenti né orizzonti. Così inizia il lento sgretolarsi della realtà: un mondo in cui la complessità viene ridotta a formule, dove la verità è manipolata fino a diventare arma e caricatura.
Nelle aule grigie e deserte di questo edificio senz’anima, gli eventi prendono forma ambigua. I corridoi, deserti come deserti sono certi ricordi, si popolano di presagi: allarmi che si accendono senza motivo, amministratori che sanguinano dal naso, come se il corpo stesso si ribellasse, esplicitando con l'emorragia ciò che la psiche non riesce più a contenere. Una sorta di inconscio epistassico: la realtà filtra dal corpo quando la mente fallisce nel capire. In questo scenario, la narrazione si disancora dal realismo e si getta nel mare del surreale. Il regista, Halfdan Ullmann Tøndel, nipote del grande Bergman, sembra più intento a inseguire ombre ancestrali che a scavare nei corpi vivi dei suoi personaggi.
Il racconto si apre su una denuncia: i genitori di Jon, compagno di Armand, avanzano accuse che parlano di violenza e di oscurità. Elizabeth conosce bene quella famiglia, sa che suo figlio non può aver detto o fatto ciò di cui lo accusano. Eppure il tribunale informale che si costituisce contro di lei non le concede voce: madre sola, contro l'autorità compatta della coppia. L’asimmetria del potere si incarna nei corpi, nei silenzi, nello spazio stesso che li separa. Reinsve, interprete sottile, restituisce con il solo respiro la disperazione di chi è costretto a difendersi in un processo in cui la sentenza è già scritta.
Ma il film, invece di restare ancorato al conflitto umano, precipita in un labirinto simbolico. I corridoi si moltiplicano, i dialoghi si spezzano in frammenti che non cercano più la comprensione. Domande si insinuano: Armand cercava di comunicare un dolore più antico? Il padre, morto in circostanze nebulose, aveva lasciato in eredità ferite più profonde delle parole? Oppure tutto questo è solo il riflesso deformato di paure inconfessabili?
Il tentativo di trovare un senso si frantuma contro la volontà di Tøndel di trascendere la carne per inseguire l’astrazione.
La risata di Elizabeth, isterica, interminabile, si manifesta come reazione paradossale agli sguardi ipocriti degli adulti, come un antidoto disperato alla menzogna. Ride non per sminuire, ma per demolire l’impalcatura di falsità che la circonda. Sembra voler mostrare che la situazione è diventata così assurda che l’unico modo per non crollare è ridere. Tuttavia, il modo in cui è girata richiama troppo l’attenzione su di sé – i personaggi non reagiscono alla crisi di riso come farebbero persone reali – rompendo qualsiasi legame emotivo con Elizabeth, Sarah o persino con il non visto Armand. E Tøndel non riesce mai davvero a riprendersi.
E poi piange, come attrice che sovverte le aspettative, portando il dramma oltre la soglia della rappresentazione: sconvolge i presenti, li disarma.
Serve più umanità riconoscibile al centro di “Armand” di quanta Tøndel sembri interessato a fornire; alcune scene diventano interminabili nonché irritanti per lo spettatore..
Da lì, “Armand” diventa ancora più strano: Elizabeth si lancia in una sorta di danza interpretativa con un bidello fantasma; incrocia Anders in un’aula opaca e impersonale. Ogni gesto, ogni movimento, diventa frammento di una realtà che implode sotto il peso delle proprie menzogne. Eppure, nonostante l'ambizione di squarciare il velo del quotidiano, il film finisce per nascondere più di quanto riveli.
Non sappiamo cosa si nasconda dietro le porte chiuse di amici e vicini, nemmeno di quelli che si occupano occasionalmente dei nostri figli. E quando quelle oscurità emergono alla luce, siamo straordinariamente incapaci di gestirle con sensibilità. È un tema ambizioso da affrontare per un regista al suo esordio, e a Tøndel sfugge di mano. Piuttosto che incarnare la verità, Armand si rifugia in una claustrofobia estetica, a tratti perfino misogina, e nelle sue derive più autocompiaciute diventa tragicamente lezioso, perfino ridicolo, culminando in uno spiegone finale che sterilizza ogni tensione.
Elizabeth, nella sua lotta solitaria contro l’ipocrisia, si erge come figura anti-retorica, come negazione vivente del perbenismo e della strumentalizzazione del dolore. E tuttavia, ciò che avrebbe potuto essere l’anima lacerante del film, si dissolve in un impianto narrativo che irrita e svia, preferendo costruire un’apparenza di profondità invece di affondare davvero nelle ferite che dichiara di voler esplorare.
Armand” tenta di dire qualcosa sull'impossibilità di conoscere l’altro, sulla nostra goffa incapacità di affrontare il male che abita le stanze accanto. Ma nella sua smania di monumentalità, il film tradisce la sua stessa materia: più innamorato dell'eredità culturale da cui proviene che della carne viva dei suoi personaggi, rimane sospeso, come un'eco incompleta nel vuoto.
Il film si tradisce, si smaschera nella sua più totale pretestuosità: usa una storia che avrebbe potuto essere necessaria solo come scusa, come trampolino per il compiacimento stilistico, l’ostentazione intellettuale, senza mai onorare davvero la profondità del tema che mette in scena.
Musica interessantissima; nei titoli di coda con Driving This Road Until Death Sets You Free di David Hermon ed Étienne Jaumet il film si spoglia di ogni pretesto: si arrende al limite, al fallimento, al silenzio irreparabile delle cose.
Più il discorso è ornato, più bisogna diffidare della verità che pretende di portare.
(Michel de Montaigne)