Per il tempo che le parole sono in bocca, sei il loro Signore.
Una volta pronunciate, sei il loro schiavo.
(Talmud Babilonese)
Nel deserto delle generazioni: Re Lear e la rovina dell’amore come possesso, mentre TUTTO e NIENTE sono i concetti che tornano costanti.
C’è una soglia oltre la quale la carne del tempo si disfa. È lì che Shakespeare pone Re Lear, non già come tragedia dell’autorità in declino, ma come disgregazione ultima del patto invisibile tra chi genera e chi eredita. Non si tratta solo di una famiglia, di un regno, di tre figlie o di un vecchio re: si tratta di un'umanità intera che si frantuma nello specchio di relazioni deformate, dove l’amore diventa una moneta da barattare e l’identità un vuoto da colmare col potere.
Non si tratta più semplicemente di rappresentare Shakespeare, ma di interrogarlo. Aspettando Re Lear non è un documentario, ma un attraversamento, un atto meditativo e allucinato in cui Alessandro Preziosi – regista, attore e testimone inquieto – si immerge in un’operazione che dissolve il confine tra teatro, arte e cinema, nel tentativo di dar corpo a una forma di pensiero incarnato.
Lear, figura logora del sovrano che cerca di ritirarsi mentre pretende di restare al centro, inaugura la vicenda non come saggio, ma come colui che crede di poter misurare l’amore altrui secondo la teatralità della parola. Le sue figlie sono convocate a una parodia d'affetto in cui la voce è esame, la lode è condizione, e il silenzio — come quello di Cordelia — è la colpa suprema. In questa prima scena si annida l’intero dramma: Lear vuole donare ciò che non sa lasciare, chiede amore senza riconoscerne la forma quando è sincera, pretende dedizione mentre nega reciprocità.
Lo spettro di Lear si aggira tra le pieghe di un allestimento che non cerca fedeltà, ma risonanza. Il testo non è più centro, ma eco. L’opera si costruisce lungo un itinerario onirico che ha per fulcro non tanto la scena quanto lo spazio che la precede e la eccede: le prove, i vuoti, gli sguardi, le cadute. Venezia – città molteplice, sospesa tra memoria e oblio – accoglie questo pellegrinaggio estetico, diventando essa stessa palcoscenico e specchio deformante: le Prigioni Nuove, l’Arsenale, il Palazzo Ducale, la Fondazione Cini, luoghi di soglia in cui l’identità si frantuma e si ricompone.
Preziosi non dirige: ascolta, attraversa, si disgrega nel rito collettivo della messinscena. Il Re Lear che prende forma è il riflesso di un crollo mentale prima che narrativo: un campo di rovine in cui padri e figli, attori e personaggi, verità e finzioni si inseguono senza mai davvero toccarsi. È in questa lacerazione che si innesta il gesto radicale di Michelangelo Pistoletto.
Ma le parole che Goneril e Regan pronunciano non sono affetto: sono investimenti. Il vecchio, percepito come un ostacolo all’autonomia e alla ricchezza, viene blandito, raggirato, poi espulso. Le figlie si muovono con la logica del calcolo, quella che predilige il guadagno al legame, la funzione al sentimento. Cordelia, che rifiuta di mentire, non per orgoglio ma per integrità, viene punita. La sincerità non ha mercato: il cuore che non sa piegarsi all’apparenza è escluso, ed è proprio nel suo “niente” che si cela il rifiuto radicale dell’ordine simbolico che Lear pretende di mantenere.
Le installazioni di Pistoletto non ornano, non illustrano: sono fenditure nel reale, portali specchianti attraverso cui l’opera teatrale si dissolve nell’interrogazione visiva. Il teatro si fa arte plastica, la parola diventa materia, il tempo si piega. Una lunga conversazione con l’artista – maestro della riflessione sul doppio e sulla responsabilità intergenerazionale – apre ulteriori abissi: cosa significa ereditare? Cosa resta di noi in chi viene dopo? Come si trasmette una verità se il linguaggio è già frattura?
Se non penso non vedo niente di particolare, solo se lo penso lo fermo e prende senso.
(M. Pistoletto)
Lear non capisce. Non può capire. Perché non ascolta. Perché l’amore, per lui, è eco del proprio potere, non dono, ma riflesso. Così, esclusa Cordelia, ridotto a fardello ingombrante da chi ha ottenuto ciò che voleva, Lear vaga nella tempesta — simbolo esterno di un disastro interno. Non è impazzito per il dolore, ma per l’impossibilità di continuare a credere nella narrazione del proprio ruolo. Senza regno, senza amore, senza risposte, scopre il nulla che lo sorreggeva. Il buffone, creatura marginale e consapevole, è l’unico che ancora gli parla come a un uomo, non come a un titolo.
Anche Michelangelo ha tre figlie, come Re Lear, e la sua Demopraxia deciderà le loro eredità e riconoscimenti: un regno con cui sgravarsi di tutto per affrontare seriamente il tema della morte. Attraverso questa esperienza ibrida, che rifiuta la semplice documentazione per assumere i tratti di una liturgia frammentaria, Aspettando Re Lear propone una riflessione sull’essere-esposti: alla scena, all’altro, alla perdita.
“Quel reciproco perdono che tutti noi siamo obbligati volenti o nolenti a concedere ai nostri genitori”
Intanto un’altra figura paterna, Gloucester, viene dilaniata dalla stessa materia tragica. Il suo figlio illegittimo, Edmund, è il portavoce di una modernità rancorosa, nutrita d’ingiustizia e assetata di rivincita. Non chiede amore: chiede spazio. Non reclama un’identità, ma un posto. In lui l’eredità diventa guerra, e il sangue un accidente che giustifica ogni manipolazione. La verità viene distorta, la fedeltà di Edgar (il figlio legittimo) calunniata, e la cecità — prima simbolica — di Gloucester diventa reale. Ma è solo nel buio che egli comincerà a vedere.
Il Lear non è più solo un personaggio: è un vuoto condiviso, una soglia interiore, un’esperienza che corrode le certezze e apre alla domanda. Un cinema che si fa interrogazione etica, una drammaturgia che sopravvive nel gesto che la decostruisce.
Re Lear si aggira nel labirinto nel quale si è rinchiuso, godendosi i frutti della propria follia, “perché solo quando si perde tutto si può vedere in modo reale la propria vita… non c’è futuro senza disgrazia”.
La tragedia non è mai un evento, ma uno schema che si ripete. Nessuno è saldo: ogni legame è transitorio, ogni fedeltà revocabile. In fondo, Re Lear racconta l’implosione della fiducia. I vecchi non possono cedere perché hanno paura di non valere nulla senza ciò che possiedono. I giovani non vogliono aspettare perché temono che la vita li sorpassi. E allora il patto intergenerazionale si rompe.
Il padre è un tiranno che chiede adorazione. I figli, specchi infranti della sua stessa brutalità, rispondono con la strategia o il silenzio. In entrambi i casi, l’amore diventa impossibile. E allora, come non pensare che questa sia la tragedia dell’amore non scelto? Della famiglia come destino, non come scelta? Di relazioni che iniziano nel sangue e finiscono nell’odio, semplicemente perché non si è capaci di dare, né di ricevere, se non alle proprie condizioni?
Mostra meno di quel che hai, parla meno di quel che sai, presta meno di quel che puoi, va a cavallo più che a piedi, sappi più di quanto credi, metti tanto togli pochi, resta a casa accanto al fuoco, tu guadagnerai se ti accontenti, due per dieci quindi venti.
(Il Matto)
È l’abisso di ogni sistema affettivo in cui la libertà viene negata in nome del dovere, e il dovere si tramuta in violenza. Se Amleto è il dramma del pensiero che paralizza l’azione, Macbeth quello del desiderio che corrompe, Otello quello della passione che acceca, allora Re Lear è la tragedia dell’incomunicabilità tra chi ha già vissuto e chi ancora deve vivere. Non un conflitto generazionale, ma un’esplosione del tempo stesso, in cui passato e futuro si rifiutano di toccarsi.
E forse per questo il dramma, pur grandioso, può apparire a tratti eccessivo. Non nella forma — che è aspramente scabra, priva di grazia — ma nella densità del disastro. Tutti ingannano, tutti muoiono, tutto si disintegra. Non resta che la domanda: è possibile amare senza dominio? È possibile lasciare senza pretendere? È possibile ereditare senza distruggere?
Se non possiamo rispondere, allora non ci resta che Aspettare Re Lear, nudo nella tempesta, a gridare nel vento il suo lamento di uomo che ha voluto tutto e non ha saputo vedere nulla.
Tu lo sai perché il naso è al centro della faccia tra un occhio e l’altro, perché tutto ciò che non si sente a fiuto si scopre con la vista.
( Il Matto)