Tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia c’è il fiume Inguri.
In primavera durante lo scioglimento del ghiaccio l’acqua porta a valle un’infinità di detriti che si depositano sul fiume formando così delle isole temporanee.
Queste formazioni stagionali sono infatti costituite da sostanze molto fertili e consentono a chi vi si dedica di ricavare nutrimento per tutto l’inverno successivo.
Una guerra di secessione tormenta la Georgia mentre un vecchio contadino al quale è rimasta una nipote adolescente orfana coltiva una di queste isole.
Instancabile, costruisce una baracca e con un lavoro duro durissimo sfida le sorti della natura. La nipote viene spesso adocchiata dagli uomini dell’esercito mentre un ribelle ferito viene curato dall’anziano contadino.
Una fotografia maestosa e una pressoché totale assenza di dialoghi riescono a raccontare una lotta fratricida tra georgiani e ribelli; un amore incondizionato e protettivo del nonno per la nipote alla ricerca di emozioni dettate dai cambia-menti del corpo; una quotidianità implacabilmente ridondante, una povertà crudele, una vita scandita da una natura generosa e feroce, una pelle solcata dai ritmi dilatati e faticosi.
Lo sguardo è attento e preciso, mai distratto dall’inessenziale. Come essenziale è quella terra a scadenza che produce granoturco e che parla solo il suo linguaggio.
Una lezione di vita dimenticata dal nostro mondo ormai regno del superfluo.
Una piccola barchetta, del pesce e un fuoco rudimentale per la brace; mentre quel minimo progetto di vita si deve arrendere di fronte al traguardo.
Infinito lavoro, sguardi, attese, echi e suoni della natura suscitano una miriade di interrogativi intimi e spudorati. Una poesia di immagini struggenti racconta una realtà così lontana e così invadente.
Candidato all’oscar come miglior film straniero.
Un film sobrio, necessario, inquietante, nel quale il sublime matematico kantiano si incontra con quello dinamico mentre la natura detta la morale.