Dangerous Animals

Dangerous Animals

Sean Byrne

Thriller • 2025 • 1h 33m

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

Una surfista solitaria, un uomo disturbato, una barca in mezzo all’oceano. Lui uccide per piacere, lei lotta per non diventare carne da squalo. Il sangue scorre, il mare guarda.

Recensito da Beatrice 17. July 2025
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Viviamo in piena decadenza: il nostro divertimento è spettacolo della decomposizione.
Emil Cioran


Nel maelström del cinema contemporaneo, dove l’abisso guarda il pubblico e il pubblico risponde con popcorn, arriva Dangerous Animals – un film che prende il mito dello squalo assassino, lo porta in gita scolastica in Australia e gli regala un killer nostalgico della VHS.
Il film, presentato con una certa serietà a Cannes 2025 (sezione Quinzaine, giusto per dare un tono), affonda le sue zanne nella carne viva del genere survival horror, per poi risalire in superficie come un pallone gonfiato, pronto a esplodere sotto il sole dell’ovvietà.
Lo squalo, un tempo incarnazione dell’inconscio marino e pulsionale, qui si limita a fare da tappezzeria biologica: è la natura come puro caos, come reminder darwiniano che nessun personaggio è al sicuro, ma soprattutto che la sceneggiatura è alla deriva.
E in mezzo a questa deriva emerge Zephyr, sopravvissuta per vocazione, final girl per disprezzo della sconfitta, vera eroina tragica in un mondo da reality show. La sua lotta non è per la vita, ma contro la stupidità. E vince, proprio perché – miracolosamente – non si abbassa mai alla logica del film che la ospita.
Zephyr è una combattente. Non per ideologia, non per trauma, non per vendetta. Combatte perché – ed è qui la vera svolta esistenziale – ha deciso che le scoccia morire male. È un gesto ontologico, quasi cartesiano: penso dunque esisto, quindi ti spacco la faccia, caro serial killer.
Intorno a lei, si snoda una serie di scene macabre, non tanto per necessità narrativa quanto per sadismo autocompiaciuto: arti mozzati con precisione chirurgica, immersioni in mare a scopo snuff, squali che fungono da metafora e da dentiera collettiva. Il tutto condito da un umorismo nero che vorrebbe essere provocatorio e finisce per essere involontariamente dadaista.
Tucker, l’antagonista, è uno psicopatico con tendenze cinefile e un feticismo per il formato analogico. Se non fosse un assassino, sarebbe semplicemente un idiota. Invece, è una semplice guida turistica idiota con la missione di trasformare giovani donne in installazioni post-umane da consumare in bassa definizione.
Il film pretende, a tratti, di sollevare questioni: turismo predatorio, squali usati come attrazione, squilibri socioeconomici tra predatori e prede, ma tutto evapora in favore di battute prevedibili. Una forma di attivismo balneare, come se Greenpeace avesse scritto il copione durante un blackout.
Ci sono accenni – oh, fugaci come pensieri lucidi in una sbronza – a disuguaglianze sociali, al turismo predatorio, all’etica del documentare la morte. Ma non temete: tutto ciò viene prontamente abbandonato in favore di inseguimenti notturni, urla ben calibrate e l’occasionale battutina dark.
La regia di Byrne gioca con il citazionismo visivo da B-movie anni ’70 e con il riciclo emotivo da serie Netflix. I limiti di budget si notano, ma vengono mascherati con astuzia: luci basse, sangue generoso, qualche omaggio a Jaws e molto camp autoironico. Il risultato è uno spettacolo di morte ben temperato, per stomaci che ridono mentre si voltano.
D’altronde Nietzsche avrebbe detto che l’essere umano è l’unico animale che si diverte a guardare i suoi simili soffrire, purché lo si chiami finzione.
Eppure, Zephyr continua a tenere tutto in piedi. Nonostante lo script, nonostante le battute, nonostante l’acqua. È lei a salvare ciò che resta di salvabile. Non perché rappresenti un’idea o un simbolo, ma perché  una vera eroina c’è, ed è lei che ci fa dimenticare, almeno per un po’, quanto tutto il resto sia un circo acquatico in cerca d’autore.
Nonostante tutto, ci si diverte. Non nel senso nobile del termine, ma in quello un po’ colpevole: come guardare video di gatti con le voci doppiate. Dangerous Animals non dice nulla che non sia già stato detto meglio, ma lo urla forte e lo colora,  bene o male che sia.
Dangerous Animals non scava, non interroga, non approfondisce. Ma intrattiene. Con l’eleganza di un coltello arrugginito e la coerenza di un incubo montato da uno stagista. Eppure, è difficile distogliere lo sguardo. Perché, come direbbe Cioran:

La noia è la radice di tutti i mali. E guardare film come questo è il nostro modo postmoderno di fingere di combatterla.
— Emil Cioran

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