Fuori

Mario Martone Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival Fuori Drama • 2025 • 2h 35m

Un frammento della vita di Goliarda Sapienza, scrittrice e attrice anticonvenzionale anche attraverso la sua esperienza di detenzione nel carcere femminile di Rebibbia negli anni Ottanta. Condannata per un furto minore, Goliarda entra in contatto con un’umanità sommersa fatta di corpi, storie e solidarietà. Lontano da ogni retorica carceraria, il film segue il legame profondo e ambiguo tra Goliarda e Roberta, giovane detenuta dall’identità sfuggente, in un percorso che scardina le dicotomie tra dentro e fuori, normalità e devianza, cultura e sopravvivenza.
Recensito da Beatrice 21. May 2025

Sono da così poco sfuggita all’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell’età, che questo improvviso poter essere insieme – cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità – non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata.
(Goliarda Sapienza)


Un tempo detto reclusione, oggi si chiamerebbe disvelamento. Goliarda Sapienza, autrice non allineata, precipita in quell'interstizio dell’ordine giuridico chiamato prigione o Università di Rebibbia. Non per eroismo, né per ribellione consapevole, ma per un atto che è insieme sottrazione materiale e gesto simbolico: un furto, sì, ma anche un tentativo di riappropriazione. Non di oggetti, ma di senso.
È lì, nel ventre pietrificato, che G. incontra ciò che resta della rivoluzione: Roberta, presenza frammentaria e feroce, voce di un’epoca in disfacimento, relitto e seme insieme. Non c’è da cercare la trama: la narrazione è solo un effetto collaterale della convivenza forzata tra anime collassate in cerca d’appiglio. Ne scaturisce un legame che non chiede il permesso della società per esistere. Non è amore, né affiliazione. È contatto. È l’interrogazione muta su cosa significhi ancora, se significhi ancora, vivere.
La città, vista da dentro una camionetta che corre a sirene spiegate, si espande come un teatro barocco. È sontuosa proprio nel momento in cui cessa di appartenere. Appena fuori, le strade si accorciano, si stringono, come a ribadire che il fuori è sempre più carcere del dentro. Ciò che Martone e Di Majo articolano con pazienza scenica è una geografia del vincolo: ogni spazio è misura dell’esclusione, ogni corpo un dispositivo di resistenza.
La sequenza cardine non si costruisce attorno a un gesto spettacolare, ma intorno alla visita a un’ex-detenuta che ha aperto una profumeria nei margini urbani. Un gesto minimo, eppure potentissimo: la riorganizzazione dello spazio in chiave privata, quasi clandestina. Non una liberazione, ma un ripiegamento consapevole. La cella traslata nel commercio, il carcere metabolizzato nel quotidiano.
Martone filma senza compiacimento corpi politici e spazi feriti. Non abbellisce, non denuncia.  Rende conto. Rende visibile ciò che si nasconde nei gesti quotidiani: una nudità che non è mai pornografia, ma solo esposizione dell’essere. Il corpo femminile – soglia e arma, confine e detonatore – smette di essere un oggetto narrativo per diventare misura di verità. Verità che esige di essere cantata, persino nel dolore. È nel canto, infatti, che il film innesta la sua politicità più radicale: non nella dichiarazione, ma nell’ostinazione a non dimenticare.
La politica non è qui affare di partiti o slogan, ma è intrisa nel modo stesso in cui i personaggi si muovono nello spazio, nei silenzi, nei gesti di cura. È la politica dei corpi affamati di senso, di un femminile che non accetta più di essere contenuto in formule identitarie, ma esplora le sue ambivalenze come un laboratorio dell’impossibile.
La detenzione non è che una soglia, una genealogia della sconfitta. Il vero baratro è il ritorno. Una Roma che sembra immobile ma cambia direzione a ogni sguardo accompagna le protagoniste lungo un itinerario che è disfatta e aspirazione al contempo. Roberta – interprete eccezionale di una giovinezza estinta – guida Goliarda come un Virgilio tossico e visionario attraverso le rovine di un’Italia che non ha più parole per dire sé stessa. Non c’è redenzione. Solo continuità dell’ingiustizia.
Gli anni Ottanta incombono come una malattia estetica. La strage fascista alla stazione di Bologna, la deriva narcisistica della società dello spettacolo, l’eroina come solvente sociale: Martone non racconta, evoca. Lascia che la Storia contamini la carne, che l’ideologia si impasti col sangue e con la voce.
In questo senso, Fuori non è solo un film su Goliarda Sapienza. È un film sul fallimento sistemico dell’utopia. L’autrice ne è solo il medium più consapevole. In lei si addensano le voci dei sommersi, le istanze dei dimenticati, le urgenze dei dannati della terra.
Una donna nata in un organismo preindustriale, figlia unica dell’unione tra due vedovi già con figli, ultima di dieci fratelli, cresciuta tra cultura e militanza, lontana, perché così voleva il padre,  da ogni educazione scolastica di una italietta da regime. Una figlia di anarchici: Maria Giudice, pioniera del femminismo italiano, e Giuseppe Sapienza, avvocato libertario, padre anche di Goliardo, fratellastro morto affogato in mare – forse ucciso dalla mafia collusa col regime. A lui Goliarda deve il nome. A lui forse, e alla sua fine, anche quella precoce consapevolezza della lotta e della perdita.
La scrittura di Sapienza – mai consolatoria, sempre obliqua – abita ogni fotogramma come una memoria fuori asse. Ma ciò che Martone insegue non è la biografia, bensì una condizione. Una postura filosofica. Una volontà, forse, di sabotare ogni ordine predefinito: una “certezza del dubbio”. La “gioia” di cui parlava Sapienza non è mai accessibile in modo diretto. Va attraversata come la vergogna, come il margine.
La reclusione per Goliarda è un ritorno al linguaggio: antiborghese, viscerale, pasoliniano. È nel carcere che l’elettroshock – dopo i sette che aveva sostenuto e superato – si trasforma nel trauma fecondo, nella soglia percettiva dove l’inconscio si fa scrittura, recupero, ispirazione. E se piazza Euclide rappresenta l’ordine borghese, l’Acqua Bullicante – cosiddetta per la presenza di emanazioni gassose sulfuree che le facevano ribollire – diventa emblema della sua deriva: irriducibile, sotterranea, inarrestabile.
Le relazioni che si instaurano in carcere – madre-figlia, amante-amica, complice-testimone – non sopravvivono per affetto, ma per necessità. Sono dispositivi di sopravvivenza, strumenti attraverso cui tenere in vita un’umanità che altrove è stata smantellata. Non c’è sentimentalismo. C’è solo una tensione ostinata verso qualcosa che non si lascia possedere. Qualcosa che sfugge, sempre. Qualcosa che è sempre altrove.
Fuori è un’opera che scava. Scava nei testi della Sapienza, ma anche nella tradizione filmica a cui Martone si è legato nel tempo: un cinema come sopravvivenza. Soprattutto scava nel presente, perché sa che ogni ricostruzione del passato è sempre un gesto di prognosi. La Storia non si contempla, si interroga. E spesso, non risponde.
Non è un caso che il film restituisca lo smarrimento attraverso camminate, spostamenti, derive urbane. Ogni movimento è una domanda. Ogni stasi, un rifiuto. Valeria Golino diventa la forza e la mitezza, l’inquietudine e l’imprevedibilità di Goliarda incarnando la sua verticalità più che interpretarla. Anche nel coro degli “altri” – i personaggi minori, i fantasmi sociali, gli scarti – Fuori trova la sua verità più dissonante.
Un film a piccoli tratti posticcio, tuttavia armonicamente scomposto. Un film che non consola, non spiega, non abbellisce. Un’opera che sceglie di restare aperta, esposta. Goliarda sta dentro e fuori la vita: la vive lasciandosi vivere e la possiede solo con la scrittura, quando anche questa non le fugge dalle mani.


Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole… e poi ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove.
(Goliarda Sapienza)

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