Hunger

Steve Mcqueen Hunger Drama • 2008 • 1h 36m

Recensito da Beatrice 20. August 2023

Irlanda del Nord dal 1976 al 1981.

Prigione di Long Kesh “The Maze”, “il labirinto”. Da quando il primo Ministro Margaret Thatcher abolisce lo statuto speciale di prigioniero per ogni car-cerato paramilitare della resistenza irlandese, i detenuti appartenenti all’IRA, ormai considerati alla stregua di criminali comuni, iniziano lo sciopero della coperta, ossia non accettano abiti carcerari, lo sciopero dello sporco, rifiutano qualsiasi intervento igienico, coprendo le pareti di escrementi, svuotando i buglioli nei corridoi e dormendo in celle piene di vermi; fino al ricorso ad un primo sciopero della fame seguito da quello del 1 marzo del 1981, voluto da Bobby Sands, leader del movimento.

La prima scena del film descrive benissimo il carattere di un secondino paranoico che vive per attuare violente repressioni in ambito carcerario spesso coadiuvate anche dall’intervento di corpi speciali per rendere ancora più cruente le violenze contro i ribelli dell’IRA. Veri e propri rituali di tortura perpetrati a danno di coloro che in nome della libertà non possono accettare regole che non salvaguardano il loro stato di resistenti politici.

Il corpo e il suo sacrificio sono messi in primo piano, come accade sempre nei film di Steve McQueen, e come ricordiamo in Shame, successivo a Hunger, del quale rievoca molti piani sequenza di corpi violati della loro libertà, nel primo caso dettata da una dipendenza sessuale, nel secondo da una necessita di essere liberi.

Un corpo costretto dall’incapacità di gestire la propria libertà, vedi Shame, ad un corpo costretto dall’impossibilità di farla rispettare, vedi Hunger.

Una ricerca, una necessità quella di essere liberi che costringerà Bobby Sands a darsi la morte attraverso un crudele sciopero della fame autoperpetrato per 66 giorni.

Poter scegliere di disporre di sé, della propria vita e morte, vede in quest’uomo di 27 anni il martirio della trasformazione del corpo che si consuma nella magrezza, nella formazione di ulcere e decubiti, nell’estremo dolore fisico.

Una necessità di libero arbitrio che si conferma negli straordinari 20 minuti di dialogo tra Bobby e un vecchio prete di sua conoscenza attraverso il quale riusciranno a dirsi tutto quello che è doveroso dire per entrambi.

Un finale sublime e straziante conferma il progetto firmato dalla mano di un grande artista.

Dodici guardie verranno uccise dai paramilitari. 9 detenuti politici moriranno di fame insieme a Bobby Sands che vedrà la morte dopo 66 giorni di agonia. L’ipocrisia del governo britannico lo nominerà membro del parlamento e verranno accolte le richieste.

Il film sembra a tratti insostenibile, è altresì un’operazione di estetismo assoluto, eversiva e dirompente.

Con Steve McQueen si passa senza alcuna difficoltà ad ascoltare immagini di corpi che parlano fino a dialoghi che ritraggono perfettamente ciò che occorre rappresentare.

Un grande artista riesce a far indugiare lo spettatore di fronte a ciò che rappresenta, lo educa a concedersi il tempo per emozionarsi e riflettere di fronte alla nudità dell’umano.

Lo guida ad elaborare lo shock, quello provocato da immagini crudeli, forti, violente, gelide, che rappresentano senza remore ciò che non può essere taciuto, perché l’arte è al servizio di un progetto struggente.

Se lo “scopo dell’arte non è riprodurre il visibile ma renderlo visibile”, come sosteneva Paul Klee, questo film ne è convincente esempio.

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