Nessuno si conosce finché non è stato messo alla prova.
La vicenda di Belle Steiner si consuma nella solitudine di una stanza, nella fragilità di un corpo abbandonato, nella voracità di uno sguardo collettivo che individua il colpevole ancor prima di averne certezza. Ospite di Pierre e Cléa, la giovane ragazza viene trovata strangolata, nuda, il corpo spogliato non solo di vestiti ma di ogni difesa dalla brutalità del giudizio pubblico. L'ultimo a vederla viva è stato Pierre, insegnante di matematica dal volto impassibile, uomo silenzioso, indecifrabile, colpevole più per la sua assenza di reazione che per un'eventuale azione.
Cléa, moglie e spettatrice, travolta dalla vicenda dal suo dolore e da quello disperato della madre della ragazza, crede nell’ innocenza del marito. Ma può l'innocenza esistere in un mondo che si nutre di sospetti e condanne sommarie? Il piccolo microcosmo provinciale, minacciato dalla presenza di un possibile mostro, lo isola con la stessa naturalezza con cui una comunità animale si libera dall'elemento malato. La giustizia non è più prerogativa delle aule di tribunale: lo smartphone ha già emesso la sentenza, i social si fanno boia e giuria, trasformando il dramma privato in una pantomima pubblica. La sentenza si annida nelle fotografie, nei commenti, nelle menzioni: il tribunale virtuale ha già deliberato.
Non è solo Pierre a subire il peso del giudizio: anche Belle, sebbene vittima, non sfugge alla violenza di una società che seziona il passato per trovarvi ombre che giustifichino l'ingiustificabile. I suoi video, le sue immagini, i suoi desideri esposti diventano prove a carico, come se la sua morte fosse una conseguenza logica della sua esistenza.
Pierre, dal canto suo, non si difende. La sua resistenza è nulla, la sua passività assoluta, come se la sua figura non fosse altro che un riflesso delle narrazioni altrui. La sua unica colpa? Guardare. Guardare la vicina che si spoglia dalla finestra, guardare i dettagli femminili con una fascinazione quasi astratta, osservare il mondo con un interesse che non si traduce mai in azione.
Si può essere colpevoli di uno sguardo? Si può essere condannati per la propria opacità, per la mancanza di una difesa, per il semplice rifiuto di aderire ai codici della propria epoca? Il dubbio rimane.
Le indagini si trascinano, la giudice lo interroga, la comunità lo isola, gli studenti lo deridono su snapchat con epiteti che trasformano un uomo in un simbolo del male: lo strangolatore. La parola della vittima, ricostruita postuma attraverso il filtro degli inquirenti, delle voci di paese, della narrazione mediatica, lo incastra senza bisogno di prove inoppugnabili. Anche i numeri che Pierre insegna, così rigorosi nelle loro leggi, non possono salvarlo: la probabilità si dissolve nell'arbitrarietà della percezione collettiva.
Eppure, non tutto è fissità e condanna. Il destino di Pierre incrocia quello di Aurélie, la trascrittrice delle sue deposizioni, un’altra osservatrice silenziosa. Con lei, in una discoteca illuminata da luci al neon, Pierre si lascia trascinare nel flusso della carne, rispondendo all'accusa di desiderio con l'unico atto che possa riscattarlo: il desiderio stesso.
Ma la verità? La verità resta un’illusione. Pierre non si difende, non si assolve, non si accusa. È un'ombra in un gioco di specchi deformanti. Il suo destino è già segnato, non dall'evidenza, ma dalla necessità che il mondo ha di definire un colpevole.
Nonostante la straordinaria prova degli interpreti e la cupezza del romanzo di Georges Simenon, il film si rivela piuttosto mediocre, con una sceneggiatura che non riesce a rendere giustizia al materiale originale e una regia che non riesce a costruire la tensione necessaria, indebolendo l'impatto emotivo e narrativo.
Eppure, in questo lungo viaggio nel sospetto, nelle domande insinuanti della giudice, negli sguardi inquisitori della comunità, qualcosa emerge: l'idea che la colpevolezza non sia solo un atto, ma una possibilità. Un confine sottile separa l'innocenza dall'omicidio, e non sempre chi non ha mai ucciso può affermare con certezza di non essere mai stato, anche solo per un istante, un potenziale assassino. Ma il vero nodo della vicenda sta altrove. La sua apparente estraneità ai fatti cela una verità più inquietante: Pierre si scopre estraneo a sè stesso. Come molte persone, non sa fino a che punto potrebbe spingersi, non conosce la natura del proprio limite fino a quando non si trova in una condizione estrema.
La linea tra innocenza e colpevolezza non è mai netta, è un filo teso sopra l’abisso. Il film ci suggerisce che il mostro non è l’altro, ma il possibile che ci abita, che si svela quando le circostanze lo evocano. Così Pierre, immerso in un gioco di ombre e sospetti, non è solo vittima di un meccanismo sociale implacabile, ma anche testimone del proprio potenziale oscuro, di quell’ombra che ogni essere umano porta dentro di sé e che, in certe condizioni, può emergere in tutta la sua ambigua, terribile potenza.
Non siamo mai così lontani dal nostro vero io come quando ci crediamo completamente padroni di noi stessi.