Jeunes Méres

Giovani Madri

Luc E Jean-Pierre Dardenne

Drama • 2025 • 1h 44m

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

Jeunes Méres

Giovani madri vivono sotto lo stesso tetto in una casa famiglia, legate dalla maternità come urgenza esistenziale, ma ciascuna con conflitti personali e diversi livelli di sostegno e abbandono. Il film non punta a soluzioni monolitiche, ma segue queste vite nella loro precarietà quotidiana.
 

Recensito da Beatrice 12. July 2025
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Le madri spezzate generano figlie in frantumi, se nessuno interrompe la trasmissione.
— Nayyirah Waheed
 
In Giovani madri, i fratelli Dardenne rinunciano al monologo individuale per costruire un organismo collettivo che respira a fatica, in uno spazio chiuso dove la maternità non è scelta ma urto, reazione, gesto di difesa e talvolta di fuga. Le figure si dispongono in un equilibrio instabile, schiacciate tra istituzioni di contenimento e affetti irrisolti. Nessuna redenzione, solo approssimazioni a una soglia minima di esistenza condivisa.
Perla con il suo Noé, rimane ancorata a un'idea vaga di stabilità, fondata sul bisogno che l’altro, Robin, resti, dopo essere uscito dal carcere e dopo che lei sta costruendo la loro vita di coppia alla quale lui bambino come lei è impreparato e disinteressato in modo netto e crudele. La preghiera diventa superstizione: che non mi lasci anche lui. Quando Perla gli chiede se resterebbe, se lei desse Noé in affidamento, la risposta è una ritirata. Lei lo cerca, ma la scena è già consumata. Il desiderio di tenersi stretti a qualcuno si disintegra nel momento in cui si enuncia.
In un frammento d’infanzia narrato, un canarino viene affogato nel cesso: gesto marginale ma irrimediabile, atto muto di una madre incapace di riconoscere il vivente come qualcosa da preservare.
Julie tenta una forma di sopravvivenza nel mestiere appreso – tagliare capelli – ma basta un attacco di panico, un incontro casuale con uno spacciatore, e dimentica Mia, la bambina. Il corpo di Julie già cede, superato da un’overdose che ha la forma esatta dell’impotenza. Dylan resta, piange, resiste insieme a lei. La promessa della prima casa insieme arriva. 
Jessica cerca la madre Morgane per comunicarle la sua maternità ma il rifiuto si ripete incessante. Continuerà a seguire l’evento di un incontro mai avvenuto, la pedinerà per scoprire dove lavora e per comunicarle un fatto biologico – ho partorito – come se bastasse un dato a ristabilire un legame, un abbraccio.  Nessuna risposta. Nessuna domanda, se non quella che resta sospesa: perché mi hai lasciata, hai provato qualcosa quando mi avevi tra le braccia…
Ariane appena quindicenne e Lili incarnano il paradosso centrale del film: la maternità come imposizione, come riflesso condizionato, come effetto collaterale del desiderio altrui. La figlia che non si voleva ma che la madre Nathalie pretendeva, la violenza del compagno, lo squallore, l’ipocrisia delle istituzioni. Il tentativo di affidare la bambina altrove come unica forma di lucidità. 
Il salario minimo di Dylan, di un apprendistato da panettiere, i sussidi, la casa famiglia, gli assistenti sociali sono appendici amministrative di una marginalità strutturale. Non si esce dal perimetro. Si galleggia. 
Le domande che attraversano il film non trovano soluzione narrativa: diventare madre per non essere più figlia, diventare madre per trattenere un amore, per sfuggire alla dipendenza, per imitazione, per dovere, per un errore. La maternità precoce come gesto riflesso, come tentativo estremo di costruire una forma, una struttura, un’identità a partire da un vuoto. Ma non regge.
Apollinaire lascia parole d’addio di una maestra dalla quale si cercava riconoscimento e conforto mentre la musica accompagna un finale di accoglienza.
La lettera a Lili, datata 19/7/2042, per la figlia data in affido, tenta di fissare qualcosa nel tempo: una spiegazione, un motivo, forse una carezza differita. Ma resta scritta. Non detta. 
La narrazione si muove su un piano di brutalità costante: Julie, la ragazza abusata dal patrigno e picchiata fino a smentirsi, la figlia che assorbe le crepe della madre senza mai poterle davvero nominare. L’amore non redime, non salva. Si desidera una vita diversa, non per vergogna ma per istinto. La vergogna è irrilevante. Ciò che resta è la necessità.
In questo film, la madre non è più figura simbolica o rifugio. È presenza assente, agente traumatico, errore reiterato. Essere madre, qui, è un compito a vuoto, un gesto senza garanzie, una forma relazionale priva di fondamento stabile: essere il risultato di un amore mancato, sofferto, inseguito, cancellato, violato non può generare amore se non nel conflitto esistenziale, sociale, economico, reale. 
Nessuna delle giovani donne ce la fa davvero, forse ce la fa in qualche modo. Nessuna può veramente. E il film non fa nulla per mascherarlo. 
I Dardenne costruiscono così una macchina narrativa che registra, documenta, senza fornire appigli. L’esistenza viene mostrata nel suo stato di collasso contenuto. Senza retorica. Senza luce.
 
Ci sono silenzi tra madre e figlia che fanno più rumore di una vita intera.
— Elena Ferrante
 
 

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