La Mesias

Javier Ambrossi Javier Calvo La Mesias Drama • 2023 • 7h 30m

Il cuore pulsante della serie è il trauma infantile di Enric e di Irene cresciuti sotto la minaccia di una madre visionaria, che li educa alla religione come a una forma di sopravvivenza allucinata. Quando lui,  ormai adulto e ferito, scopre che le sue sorelle – cresciute nell’isolamento – sono diventate le protagoniste di un gruppo musicale cristiano virale, diretto dalla madre stessa, il passato deflagra nel presente. I video sono tutorial per “parlare con Dio”, coreografie pop dirette da una madre che usa la fede come arma scenica e ideologica. Le visualizzazioni diventano la nuova forma di grazia, di approvazione mistica e sociale dove il desiderio malato della madre, il suo bisogno di controllo, la sua follia che prende la forma della manipolazione.

Recensito da Beatrice 30. May 2025
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L’essere umano è un animale religioso perché è un animale disperato.
— Emil Cioran

 

La Mesías non è semplicemente una serie sul fanatismo religioso. È un viaggio disturbante e ipnotico dentro la materia oscura della dipendenza, dell’identità, della famiglia come istituzione totalitaria e perversa. Javier Ambrossi e Javier Calvo orchestrano una narrazione stratificata, in cui il trauma non è solo un’eredità privata, ma una struttura collettiva, sistemica, una condizione esistenziale in cui tutti i personaggi sono intrappolati.
È una serie che si muove come una parabola biblica rovesciata, dove il ritorno a casa non coincide con il perdono, ma con l'impossibilità di sfuggire a un'origine tossica.
Il cuore pulsante della serie è il trauma infantile di Enric e di Irene cresciuti sotto la minaccia di una madre visionaria, che li educa alla religione come a una forma di sopravvivenza allucinata. Quando lui,  ormai adulto e ferito, scopre che le sue sorelle – cresciute nell’isolamento – sono diventate le protagoniste di un gruppo musicale cristiano virale, diretto dalla madre stessa, il passato deflagra nel presente. I video sono tutorial per “parlare con Dio”, coreografie pop dirette da una madre che usa la fede come arma scenica e ideologica. Le visualizzazioni diventano la nuova forma di grazia, di approvazione mistica e sociale dove il desiderio malato della madre, il suo bisogno di controllo, la sua follia che prende la forma della manipolazione.

In una delle scene più rivelatrici, la madre dice al figlio che non è venuto per salvare le sorelle, ma sé stesso. La frase è un taglio netto tra l’illusione della missione e la realtà della sopravvivenza. La fede, qui, è la maschera ultima del bisogno, della dipendenza da senso. Non è Dio a chiamare, ma il vuoto. Il bisogno disperato di un significato, anche se delirante.

Nel cuore della serie si insinua un paradosso antico: l’essere umano fugge dalla libertà. Come suggeriva Erich Fromm nel suo celebre Fuga dalla libertà, l’individuo preferisce spesso la sicurezza della sottomissione all’angoscia della scelta. La madre, forza perturbante diventa il simbolo di questa dinamica: una donna schiacciata da una storia di abusi e umiliazioni, che si reinventa profetessa per non impazzire. La fede è la sua ancora, la sua droga, il suo alibi. Ma ciò che offre ai figli non è amore: è dipendenza, prigione, servitù.
Qui entra in gioco anche la servitù volontaria di cui parlava Étienne de La Boétie: l’essere umano  preferisce l’obbedienza perché gli evita il peso della responsabilità. In La Mesías, tutti i personaggi gravitano intorno a questa scelta: si sottomettono alla madre, a Dio, al ricordo, al senso di colpa, pur di non affrontare il vuoto. L’angoscia di dover scegliere da soli chi essere, senza più alcuna narrazione salvifica, è troppo grande.
 
La libertà non è un dono: è un peso. E molti preferiscono il sollievo dell’obbedienza.
— Erich Fromm
 
La Mesías è perciò una lunga meditazione su cosa significhi essere al mondo. Cosa accade quando non ci sono più riferimenti stabili, se non quelli imposti da chi ti manipola? Le fragilità che generano dipendenza – affettiva, religiosa, simbolica – sono messe in scena con precisione chirurgica. La musica elettronica che accompagna i videoclip delle sorelle è un mezzo moderno per promuovere la fede, ma è anche un grido manipolato, una performance forzata. Il corpo femminile diventa veicolo di propaganda spirituale e insieme carcere espressivo.

Il riferimento a movimenti come l'Opus Dei non è casuale: nella serie si insinuano i fantasmi delle istituzioni religiose che si fondano sul senso di colpa, La Mesías mostra come la libertà, anziché liberare, terrorizzi. Meglio rifugiarsi nell’obbedienza, nella rappresentazione, nel ruolo assegnato. La sudditanza alla Volontà Schopenhaueriana attraverso la Rappresentazione è uno dei motori più oscuri dell’intera narrazione.

Lo sguardo degli autori è profondamente inquieto, e attraversa anche il ricorso all’ayahuasca – usata da uno dei personaggi per "vedere tutto", come se solo lo svelamento totale del reale potesse restituire lucidità. Ma la verità è un abisso. Se non vedi tutto, non vedi niente; ma se vedi tutto, potresti non reggere. Il vero tema, allora, non è la fede in Dio, ma la dipendenza dalla ricerca di senso, di un significato, di punti di riferimento anche patologici: questa è la vera dipendenza dell’umano.

La serie sfiora anche la parabola del figliol prodigo, ma la sovverte: il ritorno a casa non porta pace, ma solo nuove ferite. Dai traumi infantili, sembra dirci la serie, non si guarisce. Si può solo cercare di trasformarli, senza mai sapere se il processo sarà sufficiente a salvarsi.

Il pretesto della fede, allora, si svela per ciò che è: una ricerca disperata di significato, di struttura, di un Altro che dia senso alla propria esistenza. Ma la vera dipendenza dell’umano non è da Dio, bensì dalla struttura simbolica che lo protegge dal caos. La famiglia, in questa prospettiva, non è solo il luogo della cura, ma la prima forma di organizzazione gerarchica, di potere, di ricatto affettivo. La sua rappresentazione nella serie è spietata: una setta, una rete incestuosa, una replica grottesca dell’ordine sociale.
Attraverso un uso sapiente della musica elettronica, della fotografia pittorica, e di una narrazione che si fa incubo, La Mesías costruisce un mondo in cui le fragilità non vengono curate, ma sfruttate. La fede non redime, ma struttura il delirio. I tutorial per “parlare con Dio” sono la versione contemporanea del confessionale: un luogo dove l’io si espone per essere approvato, manipolato, monetizzato. Le visualizzazioni diventano la nuova grazia: più ti vedono, più vali.
Eppure, nonostante tutto, La Mesías non giudica i suoi personaggi. Non li assolve, ma nemmeno li condanna. Mostra con compassione la fatica di essere al mondo, di abitare un corpo, un passato, un nome. E suggerisce che forse, alla fine, non si guarisce mai davvero. Dai traumi infantili non si esce indenni. Si sopravvive, a tratti. Si barcolla tra l’illusione e la fuga.
E allora, cos’è la salvezza? Forse è proprio il coraggio di perdere la fede, di rompere l’incantesimo, di squarciare il velo di Maya e guardare il mondo senza la mediazione della rappresentazione. Ma questo gesto, che promette libertà, richiede una forza che pochi possiedono. La Mesías ci mostra quanto sia difficile abbandonare la voce della madre – anche quando quella voce è veleno puro – e quanto profondamente l’umano sia disposto a sacrificare tutto, pur di non essere solo nel vuoto.
La famiglia, più ancora della religione, è l’oggetto del processo. È l’origine del delirio, la gabbia più sottile e inesorabile. Una madre che manipola in nome dell'amore, una fede che copre la follia, una comunità che si stringe in cerchio per evitare la vertigine della libertà. La Mesías ci ricorda che, spesso, ciò da cui vogliamo salvarci non è il peccato, ma l’origine stessa da cui proveniamo.


La famiglia è il luogo dove si costruisce l’io, e spesso dove si distrugge.
— Donald W. Winnicott
 
 

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