L’epoca è finita. Ma non è ancora iniziato ciò che può venire.
— Giorgio Agamben
Ci sono opere che non si limitano a rappresentare il mondo, ma lo incidono. Non si tratta di immagini, ma di ferite. Sirat, terzo lungometraggio di Óliver Laxe, si muove in questo spazio liminale, in questa fessura tra il visibile e l’indicibile. Non è un film da comprendere, ma da attraversare. Come un sentiero che non promette nulla, se non la prova. Come una soglia. Come una lama.
Il titolo è già una rivelazione: Sirat – il ponte escatologico della tradizione islamica, più sottile di un capello e teso sull’inferno – è la linea che ogni anima dovrà percorrere nel Giorno del Giudizio per raggiungere il proprio destino. Ma Sirat è anche il poros greco: passaggio precario, punto di crisi, strettoia tra ciò che si disgrega e ciò che – forse – si salva. Chi passa, non torna. E chi non passa, cade. Il film si colloca interamente su quella lama sottilissima che separa l’Occidente dalla propria disfatta. Perché la fine – è chiaro sin dai primi fotogrammi – non è un evento futuro. È già iniziata. Da tempo. È in atto. È la nostra condizione.
Viviamo tempi in cui si sopravvive alla propria fine.
— Jean Baudrillard
L’inizio è una vertigine: un rave di quaranta minuti immerso nel deserto marocchino. Una festa lisergica e ipnotica che non ha nulla di esotico o liberatorio. È un’orgia post-utopica, un rituale di resistenza emotiva dove la musica – splendida, magnetica, martellante – non è fatta per essere ascoltata, ma per essere danzata. Per far vibrare ciò che del corpo ancora risponde. Siamo nel sublime kantiano, ma ribaltato: non come elevazione dello spirito davanti alla natura, ma come spaesamento psico-sensoriale davanti all’inconoscibile, alla brutalità del paesaggio, alla bellezza che fa male, alla piacevolezza spiacevole di un godimento che non libera, ma annienta. Kant avrebbe parlato di “sublime dinamico”, quando le forze della natura minacciano l’annichilimento del corpo, ma la mente si scopre più forte, sopravvivente. Eppure in Sirat questo meccanismo si inceppa: nessuna ragione vince il deserto, e il sublime resta ferita aperta.
L’apparenza iniziale — quella di uno studio sul mondo dei rave, con la sua estetica dell’eccesso, della trance, della comunità provvisoria — è solo la superficie fragile di un’opera che, sin da subito, lavora per sottrazione, smontando le coordinate simboliche dell’Occidente per metterne in mostra la nudità: il bisogno di controllo, l’incapacità di ascolto, la convinzione di poter convertire ogni spazio in esperienza, ogni tempo in consumo, ogni corpo in funzione. Ma Sirat è costruito proprio contro questa logica di dominio. E lo fa lasciando che a parlare siano le fratture, i silenzi, i territori non addomesticabili.
Nel rave iniziale di Sirat, dove l’occidente si abbandona al ballo tra mutilazioni e beat sinaptici, la celebrazione non è mai “laica”, ma liturgica. Il consumo, lo smarrimento, l’assenza di scopo – tutto è sacrificio offerto a una divinità silente, senza redenzione. Una religione senza domande, fondata sulla colpa e sul debito infinito. La festa nel deserto, con i suoi ritmi ipnotici, è un rituale che rinnova il culto della fine.
La danza non è che l’esercizio spirituale del sacrificio.
— Antonin Artaud
I corpi che danzano non sono corpi intatti. Mutilazioni visibili attraversano il campo visivo come testimonianze fisiche di un trauma non risolto. Gambe mancanti, occhi coperti, camminate zoppicanti. Sono presenze eccessive e spettrali, come reliquie di un’umanità sopravvissuta a qualcosa di indicibile. Figure che ballano senza futuro. Come se il tempo si fosse spezzato, e tutto ciò che resta fosse la reiterazione di un istante finale.
I corpi offerti alla danza, non sono solo personaggi: sono resti. Sono ciò che rimane di un’umanità disertata da sè stessa. In questo, sono già oltre la vita e oltre la morte. Non c’è più un “dopo” verso cui tendere, eppure vanno. Come se la fine, iniziata da tempo, non fosse un ostacolo ma un catalizzatore: ciò che li rende finalmente umani. Laxe disegna in questi personaggi la forma paradossale della santità attraverso l’eccesso, del sacro attraverso la devastazione.
Il deserto, teatro di questa trance collettiva, non è sfondo né cornice. È personaggio, giudice, entità altra. Un labirinto, come quello di Borges: non uno spazio da decifrare, ma un luogo che dissolve ogni orientamento. Non si attraversa il deserto. È il deserto che attraversa te. I sentieri si moltiplicano, si perdono, si piegano su sé stessi. Il reale si confonde con il miraggio. E nel miraggio, ci si perde davvero. Campi minati, esplosioni improvvise, accerchiamenti: luoghi di iniziazione. Non è simbolismo: è il reale che ritorna con violenza nel cuore di un sogno tossico.
Camminare nel deserto è scegliere una patria senza terra.
— Mahmoud Darwish
Ogni passo potrebbe essere l’ultimo. Come nel rito del Sirat, chi attraversa non sa se cadrà nell’abisso o se sarà salvo: ma l’atto di camminare, già di per sé, è un atto etico. L’andare nel nulla come atto di responsabilità anche se non ci aspetta nessuno dall’altra parte.
Ecco allora che la festa si rivela per ciò che è sempre stata: non un momento di liberazione, ma un’occupazione. L’Occidente, nel suo narcisismo terminale, danza sopra un campo di battaglia. L’euforia è una copertura. La musica, un’arma anestetica. L’utopia, una zona franca costruita sull’esclusione dell’altro.
A questo punto inizia il vero passaggio. Non narrativo, ma ontologico. La scomparsa di Mar – giovane donna, figlia, sorella – è la fenditura iniziale. La sua assenza obbliga il padre Luis e il fratello Esteban a entrare in un altrove. Ma la loro ricerca non è investigazione. È processione. È pellegrinaggio laico dentro un mondo estraneo che li accoglie. La domanda non è “dove è finita Mar?”, ma: “che diritto abbiamo ancora di cercarla, noi che abbiamo contribuito a perdere tutto?”
Il viaggio, da familiare, si fa politico, e poi metafisico. La ricerca di Mar — figura assente, corpo irrintracciabile, soglia — scivola lentamente verso la condizione esistenziale di un’intera generazione che si muove nel vuoto, tra coordinate che non rispondono più, in un mondo che non sa più leggere il proprio disfacimento. Si incontrano lungo il cammino altri erranti, altri resti umani che rifiutano l’ordine. Disertori del reale, portano sulla pelle i segni di un naufragio volontario: amputazioni, denti mancanti, corpi slabbrati. Non sono martiri, non sono eroi. Sono semplicemente il prodotto di un mondo che non ha mantenuto le sue promesse. Una generazione che ha scelto l’abisso pur di non abitare più nella finzione del progresso.
A segnare la svolta è lo sgombero forzato del rave da parte dell’esercito marocchino. Un gesto autoritario che mette a tacere la musica e con essa ogni illusione di innocenza. I corpi devono andarsene, tornare da dove sono venuti. Ma non tutti obbediscono. Luis e Esteban, seguendo una fragile speranza, scelgono di disertare. E nel loro gesto — apparentemente minimo — si condensa un atto radicale: rifiutare l’ordine costituito, anche quello dell’autorità occidentale che finge neutralità, che maschera la violenza sotto le spoglie del “diritto alla festa”.
Ciò che segue è un’odissea nel nulla. Un movimento cieco in un paesaggio che non ha intenzione di rispondere. Come se il deserto stesso fosse stanco delle domande europee. Il film non offre catarsi, né risoluzioni. Al contrario, si struttura come una pedagogia del disincanto: una riflessione spietata sulla guerra senza nome che già ci attraversa, che è nelle fibre dell’Occidente stesso, nella sua incapacità di vedere, nella sua irresponsabilità diffusa. Una guerra che non oppone più due eserciti, ma due idee incompatibili del mondo: quella del dominio e quella della sopravvivenza.
E allora si comprende che Sirat è ambientato non in un futuro ipotetico, ma in un presente che non osa più dirsi tale. Una terza guerra mondiale che non ha bisogno di bandiere né di proclami: la guerra dell’ordine contro la possibilità, dell’identità contro l’erranza, della memoria contro il desiderio. In questa cornice, la figura di Mar si dissolve. Non è più una figlia, non è più una persona. È un’idea, forse una terra promessa, forse una frontiera perduta. Mar è mare, ma anche Marocco, ma anche martirio. È tutto ciò che l’Occidente cerca di ritrovare fuori da sé, non comprendendo che il proprio smarrimento non è una perdita, ma una colpa.
Alla fine resta solo la domanda etica. Non “dove siamo?”, non “chi siamo?”, ma piuttosto: che diritto abbiamo di essere qui? Che cosa ci autorizza a percorrere il mondo come se ci appartenesse, a cercare senso nei luoghi che abbiamo reso muti con il nostro passaggio? In un universo che ha perduto il concetto stesso di “retta via”, come ci si muove senza trasformare ogni passo in offesa?
La parola araba aṣ-Ṣirāṭ al-mustaqīm, da cui il titolo prende forma, indica il sentiero che conduce alla salvezza. Ma la via non è più tracciata. Il cammino, oggi, si fa a tentoni, senza luce, tra macerie. E forse non ci è più dato percorrerlo. Forse dobbiamo prima imparare a stare fermi. A interrogare il significato.
Laxe filma con crudezza visionaria. Le immagini sono secche, taglienti, a volte ipnotiche, a volte ostili. Come se l’occhio stesso del film fosse ormai incapace di assolvere o spiegare. Il cinema, qui, non è linguaggio. È evento. È giudizio. Ogni volto che i protagonisti incontrano – mutilati, migranti, bambini in guerra, resti di comunità – è un verdetto muto sul fallimento dell’Occidente. Non c’è pietismo, non c’è redenzione. C’è solo il passo da fare. Sulla lama.
Il Sirat è anche questo: una domanda politica radicale. Non riguarda il futuro. Riguarda noi, adesso. Possiamo ancora attraversare quel ponte? Lo meritiamo? Abbiamo la lucidità per riconoscere che la catastrofe non è imminente, ma già accaduta, e che ciò che viviamo è solo la sua coda lunga, estetizzata, danzante, spettacolare? Il film non risponde. Ma obbliga a porre la domanda. In silenzio.
Nel finale – o meglio, nella sua evaporazione – Sirat si sospende. Come un respiro trattenuto, come un passo a mezz’aria. Perché non c’è catarsi. Non c’è risoluzione. Il ponte resta lì, sottile come un capello, teso sull’abisso. E ognuno di noi è già in cammino. Che lo voglia o no.
Non sempre le opere dell’ingegno umano si presentano sotto forma di costruzioni ordinate, riconoscibili, classificabili. Talvolta, esse si affacciano come crepe nel linguaggio stesso, fenditure aperte sul bordo instabile della civiltà. Sirat non è semplicemente un film. È un campo di collisione, una faglia attiva in cui si incontrano i resti di un’Europa esausta e la presenza refrattaria di un altrove che rifiuta di essere assimilato o spiegato. Nessun punto d’appoggio, nessun asse di lettura stabile. Ciò che resta è un lento franare, un avvitamento interiore che assume i contorni di un’esplorazione filosofico-politica sul destino di un mondo che ha smarrito la capacità di riconoscere i propri limiti.
Un’opera imponente, assordante, invadente: un’esperienza inequivocabile, improcrastinabile. Un’esperienza da non trascurare.
Non si esce dall’inferno per salvarsi. Si esce per attraversarlo.
— Simone Weil