Una figlia

Ivano De Matteo Una Figlia Drama • 2025 • 1h 43m

Pietro, vedovo di mezza età, vive a Roma con la figlia Sofia, con cui ha un legame emotivamente intenso. Dopo anni di lutto, non ha mai cercato un’altra relazione. Quando incontra Chiara e decide di iniziare una storia con lei, la reazione ostile della figlia minaccia l’equilibrio tra loro.
Recensito da Beatrice 15. April 2025
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L’impulsività è il prezzo della crescita: ma senza guida, diventa ferita.
(Daniel J. Siegel)



Non è raro che il cinema si interroghi su ciò che l’animo umano vorrebbe evitare a ogni costo: il disordine morale che irrompe laddove dovrebbe regnare l’amore incondizionato. Cosa accade quando il sangue del nostro sangue si fa portatore di un’ombra irreparabile? Questa domanda, che ha il peso di una sentenza, aleggia sull’ultima opera di Ivano De Matteo, che ancora una volta costringe lo spettatore a sostare nella zona più scura del legame genitoriale.
Ispirata liberamente a un testo di Ciro Noja, l’opera si dispiega in una quotidianità minata da equilibri fragili: un padre vedovo, Pietro, annega nel tentativo di ricostruire un senso. Accanto a lui, una compagna che vorrebbe essere nuova linfa e una figlia che la percepisce come intrusione. Ma la quiete, già illusoria, viene infranta da un evento improvviso. E da quel momento, la giustizia assume le sembianze del carcere minorile, la paternità quelle di un abbandono intriso di sconcerto e dolore.
La detenzione, lungi dall’essere solo spazio fisico, diventa paesaggio del caos. Il silenzio delle mura, il clangore delle serrature, la diffidenza iniziale nelle relazioni: tutto disegna un rituale penitenziale che non redime, ma costringe a guardarsi dentro. È qui che il film sorprende: laddove le figure di polizia appaiono brutali, brusche, punitrici, è l’istituto penitenziario – paradossalmente – a offrire un primo accenno di recupero, un barlume di umanità attraverso alcune figure educative.
La scena iniziale è rivelativa, più che introduttiva: segna con chiarezza il peso delle responsabilità educative, che non sono mai assolute, ma neanche secondarie. Con i figli, nulla può essere lasciato al caso: ogni gesto, ogni parola ha un peso, una percezione, un'eco. In questa età fragile, il gesto spesso precede il pensiero. L’azione arriva prima della valutazione, travolta da un analfabetismo emotivo che non è colpa, ma condizione. La mente adolescente, ancora priva di un prefrontale pienamente sviluppato, può diventare preda di impulsi non ancora decifrabili. Le conseguenze, allora, possono essere definitive.
Il film non si limita a narrare: scava, scortica, espone. Una giovane, emblema dell’età instabile, compie un atto che spezza il fluire ordinario dell’esistenza. E quel gesto, sproporzionato, forse persino privo di un reale movente, sembra provenire da un mondo interno che la stessa protagonista non sa nominare. Un ospite oscuro abita il suo animo, e la mancanza di strumenti cognitivi ed emotivi la rende incapace di trattenere il gesto, di elaborare il conflitto.
Sofia, incarnata da una giovane interprete dalla grazia tragica, attraversa le stagioni dell’espiazione come una pelle che muta. Non ci sono certezze, né catarsi preconfezionate. Solo frammenti, tentativi di rinascita in un mondo che non offre appigli. E al centro di tutto, quella frase che risuona come un monito: “Un figlio può smettere di essere figlio. Un genitore, invece, non può cessare d’essere tale.” Ma il film – e l’esperienza – suggeriscono anche altro: forse genitore si può non diventare mai davvero, se non biologicamente.
Ed è in questa vertigine, tra ruolo e funzione, tra amore e colpa, tra giustizia e affetto, che l’opera di De Matteo trova la sua voce più inquieta. Niente consolazioni, nessun alibi. Solo la necessità di guardare in faccia l’amore quando si scontra con l’imperdonabile. 


l problema della gioventù è che non è mai stata veramente presa sul serio.
(Janusz Korczak)
 

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