Le famiglie non sono solo un legame di sangue, ma anche un reticolo di attese infrante, sogni non realizzati e ferite non guarite.
(Maggie O'Farrell)
Siamo tutti creature forgiate dal contesto che ci ha accolti – o che ci ha respinti. Ma in Hoby Zhang non c'è solo una constatazione sociologica: c’è l’indagine, dolorosa e ininterrotta, di un’interiorità lacerata, che si rivolge a sé stessa come a una domanda mai pacificata. A differenza di molti dei suoi coetanei, Zhang non punta il dito contro l’esterno, ma sprofonda nel pozzo oscuro del soggetto, lasciando emergere il dolore come forma di conoscenza. È da questo abisso che nasce Xili, la giovane protagonista del film, presenza silenziosa e apparentemente dimessa, ma dallo sguardo carico di enigmi. La sua è un’apparizione che si staglia già dalle prime inquadrature come un enigma: segue, in silenzio, un’amica di scuola che entra in un’auto fin troppo familiare – una scena che apre, senza clamore, le porte al non detto.
La struttura del film è volutamente frammentaria, discontinua, come a riflettere la natura disordinata della memoria e della colpa. Xili, decisa ad aiutare il suo compagno – un regista divorziato con una figlia piccola – a finanziare il proprio film, concepisce un piano che è insieme un atto di manipolazione e una forma di disperato riscatto. Ricatta l’amica, amante segreta del padre, e così facendo innesca una catena di eventi che la metterà in conflitto frontale con la madre. Ma le sue motivazioni rimangono inafferrabili: è la pulsione cieca di chi ha perso il centro, o un gesto deliberato, quasi sacrificale, per rimettere ordine nel caos originario della sua esistenza?
Il volto del padre – sempre sfuggente, mai davvero presente – diventa il simbolo dell’assenza originaria, della mancanza che segna l’intera esistenza della giovane. Xili è cresciuta dentro una famiglia che le ha negato l’essere: data in affidamento da bambina, poi rientrata in un nucleo che non l’ha mai davvero riconosciuta come parte di sé. Nata solo per desiderio paterno, ma mai amata con autenticità, resta prigioniera di un'orfanezza che nessuna relazione potrà mai colmare. La madre è una figura opaca, nemica silenziosa, e il padre, pur essendo il suo presunto alleato, resta lontano, intangibile. Il desiderio d’amore di Xili si incarna così in un fallimento reiterato: cerca, invano, negli altri – nell’amica, nel compagno, nell’arte – un senso che non ha potuto ricevere da chi avrebbe dovuto offrirglielo per primo.
Il titolo del film richiama À l’ombre des jeunes filles en fleurs, il secondo volume della Recherche proustiana, ma in questa variazione orientale non c’è nostalgia del tempo perduto, quanto piuttosto la constatazione che ciò che non è statonon può più essere riparato. Il passato non è un territorio che si possa rivisitare: è una ferita che pulsa nel presente, e che continua a modellare il futuro.
Lo spettatore viene volutamente destabilizzato: la bellezza visiva della fotografia di Wu Jianfeng – lussureggiante, quasi pittorica – è contrastata da improvvisi scarti narrativi, colpi di scena che non obbediscono alla logica della suspense, ma a quella più sottile e inquieta del trauma. Xili vive nel doppio fondo della coscienza: per lei il tradimento, la menzogna, la manipolazione sono il linguaggio naturale della sopravvivenza. Ma ogni suo gesto la avvicina, inesorabilmente, al vuoto. Non c’è catarsi, né liberazione: solo l’accumularsi di un senso di colpa che diventa sostanza stessa dell’identità.
La struttura episodica del film – diviso in capitoli, come una partitura – segue le traiettorie spezzate dell’anima. La musica che accompagna le immagini, Il clavicembalo ben temperato di Bach, si fa metafora di un ordine che Xili può solo contemplare, ma mai abitare. La scelta di questa raccolta – preludi e fughe, in tutte le tonalità, composte “per l’uso della gioventù musicale avida di apprendere” – amplifica il contrasto tra il rigore dell’arte e il disordine della vita. In quella fuga, Xili non trova né armonia né risoluzione: la sua esistenza è tutta racchiusa nel movimento tra le note, nel tentativo vano di temperare una dissonanza originaria.
Il ricatto orchestrato da Xili si trasforma in un gesto di sfida verso un mondo che non ha saputo amarla, un tentativo paradossale di riscatto attraverso la colpa. Ma è un gesto destinato a fallire, perché ciò che è stato negato nell’infanzia – l’amore, la cura, il riconoscimento – non può essere compensato. L’opera di Zhang non offre redenzione, ma un passaggio: forse solo un nuovo ciclo, un altro tempo, potrà aprire uno spiraglio verso un’esistenza che non sia solo sopravvivenza.
Nel frattempo, la musica continua. La fuga non si chiude, il preludio non finisce. Bach e Proust, entrambi maestri del tempo e della memoria, osservano da lontano questo piccolo dramma umano che si consuma nell’interstizio tra ciò che è stato e ciò che non potrà mai essere.
La famiglia è il luogo dove impariamo a convivere con le nostre cicatrici, anche quando nessuno le vede.
(Clarice Lispector)
22° Asian Film Festival