Der Kuss des Grashupfers

Elmar Imanov Questo film è stato presentato a Festival internazionale del cinema di Berlino Il Bacio Della Cavalletta Der Kuss des Grashupfers Drama • 2025 • 2h 8m

Bernard, intellettuale esausto e figlio inquieto, vive sospeso tra il vuoto emotivo della città e il lento disfacimento del padre malato. Mentre la realtà si frantuma in visioni disturbanti, relazioni che si dissolvono e incontri al limite dell’assurdo, Bernard cerca un senso nella tristezza, nella perdita e nell’irreparabile. Un film sulla vita e sull’impossibilità di comprenderla, dove l’unica via di fuga è un volo surreale sopra una città che non ascolta più.
Recensito da Beatrice 18. April 2025
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L’assurdo nasce dal confronto tra la ricerca umana e il silenzio irragionevole del mondo.
(Albert Camus)



Respiro, acqua, mare. Ma l’aria è sempre più pesante da inspirare quando si è consapevoli della fine. Bernard si sveglia nel suo loft, tra oggetti simmetrici, abitudini rigide, un ordine forzato che non tiene fuori il caos. Una pecora domestica, metafora del rifugio emotivo, lo guarda da una stanza all’altra, muta testimone della sua solitudine accuratamente coltivata.
Metropolitana. Bernard osserva i volti come maschere logore. Il rumore lo avvolge, lo spinge dentro un ritmo elettronico che non ha armonia, solo pulsazioni. La vita è una corsa ripetitiva, un rituale privo di scopo. Parla al padre e gli dice che mente. Il padre risponde che non coglie le sfumature. La verità, dopotutto, è una questione di acustica interiore. Bernard vuole sapere come stanno davvero le cose, ma non esistono risposte lineari: solo deviazioni, balbettii del senso.
Scruta. È inquieto. Un uomo che non sa più se ciò che sente gli appartenga. La compagna lo accusa di essere estenuante, di respirare troppo rumorosamente. Gli chiede di smettere di sospirare, di agire. Ma cosa significa agire quando ogni gesto è svuotato di necessità? Il suo respiro è la fatica di esistere.
Scorrono filmati di animali. Uccelli morti in Louisiana e Arkansas. Il padre guarda la TV senza espressione. Bernard chiede: “Sei contento di essere stato colpito?”
 Il padre sorride, con l’ironia finale degli sconfitti: “Sì, è stato un bel colpo.”
La realtà è smagliata. Carlos, il padre, era stato aggredito per strada. In ospedale tutto è freddo, rapido, impersonale. Nessuno si prende cura della vulnerabilità, la diagnosi è un suono sporco: tumore cerebrale. Due mesi. Bernard viene risucchiato dal baratro, la morte comincia a scavare dentro di lui. Gli eventi non si susseguono, collassano.
Sogna cetacei che cantano. Le immagini si infrangono come onde senza scopo. La compagna lo lascia nella metropolitana. Non sa più perché un tempo lo amava. Forse non l’ha mai amato. Lui la segue, come un cane stanco, come un’eco che non vuole spegnersi.
Un colloquio con l’editore: “il libro deve essere deciso e ben fatto, vivace e colorito ma con tristezza, la gente non riesce più ad affrontare la tristezza, tutti devono essere felici sempre, ho la sensazione, percepisco che non possono farcela. Noi dobbiamo aiutare le persone a entrare in contatto con la tristezza, lentamente, come un animale selvatico che per diverse settimane ti osserva cauto e infine accetta il contatto ma che poi scompare nel bosco folto.
Noi dobbiamo capire come e quando avviene. Questo è il nostro compito!
La nuova generazione ridurrà tutto in macerie, tutto andrà a sbattere contro un muro. Per questo motivo dobbiamo costruire ponti e lei ci aiuterà a creare queste connessioni”
Il padre denuncia l’aggressione: 21:37, 7317 passi da casa. Racconta tutto con precisione maniacale. Il dolore non lo ha reso fragile, ma ancora più definito. Come se morire lo rendesse più reale.
Intanto Bernard foderava i libri con carta neutra, li etichettava con cura, li allineava. Il vuoto lo riempiva d’ordine. Dice al padre: “Mi hai sempre tenuto a distanza.” Ma non sa se quella distanza fosse prevenzione o condanna.
La morte si annida anche nel vicino. La porta accanto si apre: una donna obesa, paralizzata, accudita da un ragazzo che la fa respirare. Una danza muta, deformata, sul ritmo alieno di Neyleyim di Gökçe Kilinçer. Il ragazzo si aggira nella casa come un insetto. La realtà non ha più confini.
Il film si fa trasparente: malattia, dissoluzione, fine, mostruosità. Bernard va in un locale stile Berghain insieme al padre e alla compagna. Dark room. Techno. Il luogo è impersonale, e proprio per questo restituisce un’illusione di libertà. Bernard danza. Carlos lo segue. Una notte senza gerarchie. Lei bacia un’altra donna. Bernard bacia una cavalletta gigante. La soglia è stata superata.
Invia il saggio. Un camion rovescia giochi per bambini. Bernard ne raccoglie uno, gli chiude gli occhi. Il simbolo è muto. Non c’è futuro. “Sono intellettualmente prosciugato.”
Dorme accanto al padre. Poi Carlos muore. Bernard lo bacia sulle labbra. Non c’è più spazio per la metafora.
Lei lo lascia.
Un uomo si è impiccato da un ponte. Nessuno se ne accorge.
Bernard apre la finestra. Indossa un costume dronico. Si butta. Vola. Respira. Guarda la città dall’alto, fino al mare. La pecora bela.
 
Il dolore, se attraversato, ti deforma e muta. L’imprevisto ti strappa via dalla compostezza. 
Un film surreale, kafkiano, che fa sostare nel dolore, nella tristezza come diceva l’editore; nella reazione alla insensatezza, nella tragicità dell’esistenza e con la musica di Kyan Bayani nella ontologica incomprensibilità.
L’imprevisto ti sconvolge e ti libera creando una situazione onirica e visionaria dove diventa necessario perdersi perché perdersi è condizione necessaria. 
 

Tra ciò che si pensa, ciò che si vuol dire, ciò che si crede di dire, ciò che si dice... e ciò che l’altro capisce... ci sono almeno nove possibilità di non intendersi.”
(Bernard Werber)
 

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